C’era una volta una bambina che era stata promessa in sposa ad un anziano del paese in cui viveva.

La bambina però aveva visto una sua amica impazzire, letteralmente, dopo la prima notte di nozze e non sapendo di preciso cosa potesse accadere una volta lontana dalla propria famiglia decise comunque di raccogliere i soli due vestiti che aveva e di avventurarsi in un mondo che non conosceva neanche attraverso i libri.

Questo è l’incipit di tante storie di donne e di ragazze che approdano nel nostro Paese e che, se tutto va bene, vengono inserite dal sistema di accoglienza, in progetti che durano un anno e che poi le vedono esuli in un Paese di cui non conoscono non solo i confini geografici ma anche e soprattutto quelli civili e legislativi. Donne che vengono lasciate sole all’interno delle proprie comunità che spesso non vogliono accoglierle per quelle che sono in realtà, ma che le vogliono strutturate secondo un modello sociale e tradizionale preciso. Questa premessa non serve a colpevolizzare e generalizzare in modo casuale, ma per interrogarci ancora una volta come potenziare e migliorare un sistema d’accoglienza che dopo l’ultima mazzata data dai decreti “sicurezza” e la trasformazione degli sprar in siproimi, fa sempre più acqua da tutte le parti.

Ma non solo.

Non so in alcun modo Saman Abbas chi abbia incontrato, certo non si può generalizzare, immagino però che il suo percorso sia stato molto complicato.  A scuola, a casa, per strada. Mi auguro davvero che sia scappata lontano ma i presupposti ci fanno pensare al peggio. Ci fanno ipotizzare che anche questa volta abbiamo fallito perché non siamo stati in grado di intercettare i bisogni di una ragazza vittima di una violenza che non siamo riusciti a prevenire.

Attraverso gli occhi della ragazza di cui sono mamma affidataria, ho avuto modo di vedere e comprendere come evolvono quegli infiniti meccanismi sociali che permettono, oppure no, ad una persona di sentirsi inclusa in una comunità, sia questa totalmente nuova oppure che abbia radici in quella d’origine. Quando una donna, una ragazza, scappa da un contesto violento che sia italiana o straniera, ha bisogno di tante mani dall’altra parte che la sostengano e la faccia sentire forte della scelta che ha fatto. Con le donne, soprattutto quelle straniere, invece, si casca troppo spesso nel cliché del “fattore culturale”.

La verità è brutta e dolorosa ma la maggior parte delle persone che guarda mia figlia non vede un’adolescente che cerca di farsi strada nel mondo, come tutti gli adolescenti; vede una disperata con il velo, arrivata su un barcone, che magari sarebbe felice di sposare l’amico dell’amico maliano, ivoriano, senegalese. Che non ci sarebbe niente di male se non fosse che questo è un ragionamento fatto per compartimenti stagni.

Una ragazza che secondo molti avrebbe dovuto frequentare tutt’al più un corso serale per imparare il minimo di lingua italiana necessaria per poi cercarsi un lavoro, magari come badante, per aiutare economicamente la propria famiglia in Africa. In pochi, davvero pochissimi, si sono posti il problema di quali potessero essere effettivamente i suoi bisogni, i suoi desideri e le sue speranze di adolescente. Alcune mediatrici, invece, ritenevano scandaloso che vivesse con degli italiani e che mi chiamasse mamma. Ritenevano fuori luogo che andasse a scuola quando avrebbe invece dovuto trovarsi marito e metter su famiglia.

L’idea di famiglia “tradizionale” che sia pakistana, cingalese (vedi il femminicidio di ieri a Roma), italiana è il motivo per cui spesso ci si sente ingabbiati e legati ad uno schema violento, in ogni parte del mondo. Con delle regole precise da rispettare, quelle dettate dal patriarcato.

C’è bisogno quindi non solo di empatia ma di operatrici formate, di mediatrici che come competenza non abbiano solo la conoscenza della lingua.

C’è bisogno di fornire una visione diversa dei servizi sociali, di far capire quanto possono effettivamente dare e non togliere. La violenza è un uragano che quando passa porta via molto, anche parti di sé, è fondamentale potersi fidare di qualcuno che ti dia una prospettiva, un percorso perseguibile che incontri le tue inclinazioni, sogni e capacità.

Ognuno di noi è abituato a convivere con la precarietà e proprio per questo dobbiamo spiegare a nuovi cittadini e non, cosa questo significhi, quali sono le leggi che regolano la nostra società e i diritti ed i doveri a cui siamo chiamati come comunità. Senza un’infrastruttura istituzionale che sia basata sulla cooperazione, e non sulla mera carità, non è possibile governare le conseguenze drammatiche che questa mancanza comporta nella vita di tutte e tutti.

Siamo tutti abituati a ragionare sui concetti di inclusione ed esclusione sociale, come meccanismi che trasportano o allontanano un individuo dalla società ma non ci soffermiamo mai ad approfondire e definire quali sono i confini sociali della nostra società. Pensiamo che strumenti basilari come un corso elementare di lingua italiana o un pocket money da qualche decina di euro o un lavoro sottopagato o addirittura “in nero”, siano sufficienti ad allontanare le persone dai margini della società, ma non è così.

La periferia della nostra società è in perenne movimento e i suoi confini sono sempre più vicini alla nostra quotidianità. E’ fondamentale quindi fornire e ricevere adeguati strumenti, che non sono solo linguistici o economici, per competere, sopravvivere e collaborare alla vita sociale di una nazione. Per autodeterminarsi senza il rischio di venire ammazzate per strada, in casa o fatte sparire nel nulla.  

Condividere:

You cannot copy content of this page