Una decina di anni fa, mentre lanciavo i dadi in aria e consultavo la palla 8 per capire quale strada prendere, le mie amiche iniziavano a pianificare le loro maternità. Giuro, nello stesso anno sono rimaste incinte in 4 o in 5 o forse di più, tanto che al terzo annuncio pensando ai battesimi in arrivo ho fatto il biglietto e mi sono trasferita di nuovo a Londra. 
Mia madre, che alcune le aveva viste praticamente crescere insieme a me, si era messa a fare lenzuolini e camicette portafortuna. In base alle velleità dei neo genitori lei ricamava animali tuttofare, dall’orsetto capotreno al coniglietto batterista ma ad un certo punto si è arresa anche lei e ha sventolato lenzuolino bianco. Pace. 
Anzi no.
Pance. Soprattutto ombelichi.
Ombelichi dilatati intorno a me, come in una specie di trip; tra l’altro ho da sempre un problema con l’ombelico, eppure non mi sono tirata indietro quando si è trattato di fotografare i pancioni. 
Loro erano incinte e io avevo le nausee a guardare l’ombelico deformato dal mirino. 
D’altro canto le amiche delle amiche, quelle già mamme, hanno iniziato a guardarmi come si osserva una civetta di Blewitt. 
Altre ancora hanno continuato a guardarmi come facevano prima, come si fa quando hai tra le mani il cubo di Rubik. 
Per 9 mesi la vita prosegue regolarmente, certo, con molti aperitivi in meno ma condividendo ecografie, emozioni e emorroidi -che ho scoperto essere il denominatore comune di molte gravidanze-. Tutte quelle piccole e grandi paure, le ansie che invadono la mente di una donna sopra i 30, dopo aver visto la linea sullo stick cambiare colore. 
Il parto è un po’ come l’anno zero o almeno da amica spettatrice l’ho vissuto spesso così. Da quel momento in poi cambiano tante cose. 
La mia migliore amica ad esempio 10 giorni dopo aver partorito non sapeva ancora come avrebbe chiamato la bambina ma aveva deciso nel frattempo di diventare no vax, no medicine etc. tanto che in un paio di occasioni di fronte alla febbre che non scendeva e sentendo la responsabilità di -fairy- Godmother, ho somministrato di nascosto alla mia nipotina nientepopodimeno che… la tachipirina! La mia amica è inglese e questa confessione è il motivo per cui al contrario degli altri, questo pezzo non verrà mai tradotto. 
Le donne in gravidanza sono gonfissime, soprattutto negli ultimi mesi, e bellissime ma se glielo dici non ti credono. Mia madre non è mai stata così bella ai miei occhi come il giorno in cui ha partorito mia sorella. 
Sono stata accanto a donne, alle quali volevo molto bene, durante le loro gravidanze. Anche qualche aborto.
Ci sono stata durante l’adozione di bambini che venivano dall’altra parte del mondo portandosi dietro tutto o niente. Con alcune sono stata più presente che con altre, come facciamo tutti d’altronde con le relazioni umane. 
Nel frattempo, guardando con un occhio sempre più attento a ciò che accadeva nel mondo, non solo nel mio pezzo di giardino, maturavo l’idea che quel coraggio o follia non ce l’avevo. 
In più di qualche occasione mi sono sentita parecchio a disagio perché quando dici ad alta voce che non senti tutta questa voglia di maternità ti guardano come se fossi una sociopatica che odia i bambini, quando invece mi reputo una grande amica dei bambini e li preferisco spesso e di gran lunga ai loro genitori.
Forse non sentivo questo “richiamo” perché ero diventata già madre a 8 anni di Yuri, bambolotto che andava in coma almeno 3 volte a settimana, battezzato (anche lui!) in un pomeriggio d’estate insieme a Camilla, la bambola di mia cugina. 
La cosa bizzarra è che per anni non ho avuto le idee chiare ma in compenso avevo due nomi che non avrei mai confessato neanche sotto tortura per evitare che diventassero troppo comuni.
Olivia per la femmina anzi Olivia Carla, che in famiglia avremmo chiamato semplicemente Lila.
Teo per il maschio.
E avevo, sì, avevo visto troppe puntate dei Robinson, mi pare evidente. 
Poi è arrivata Kaltuma e ha scombussolato tutti i piani, in realtà a guardarla adesso mi rendo conto che i Robinson continuano ad essere presenti. 
E’ arrivata in una serata di giugno, dopo una lunga passeggiata in montagna, anticipata qualche mese prima da un sogno in cui mio zio mi lasciava tra le braccia una bambina nera con un’enorme cicatrice sulla schiena. 
Mi piace pensare così, che zio Oreste sia stato il messaggero di questo grande amore.
Non ci sono state ecografie tantomeno emorroidi, per fortuna, ma ahimé non c’è stata neanche condivisione, quell’attenzione che viene riservata alle amiche che stanno per diventare madri, fatta eccezione per qualche raro caso. Mi rendo conto adesso che ne avrei avuto bisogno e mi rendo conto anche che Kaltuma ha fatto un po’ da cartina tornasole, forse succede questo con i figli. Sta di fatto che un bel giorno mi sono svegliata e ho scoperto ad esempio che il suo colore era un handicap per alcune persone con le quali avevo condiviso pezzi di vita. Ma ho scoperto anche la solidarietà e la curiosità, sana, di alcune persone che avevo incrociato due volte in vita mia.

La domanda nel frattempo era leggermente cambiata, da “ma allora quando fate un bambino?” a “ma un bambino proprio tutto tuo non lo vorresti?”.
Diventare genitori significa amare una persona incondizionatamente o amare una persona incondizionatamente purché abbia i tuoi occhi e le orecchie del nonno?
Io non mi sono neanche accorta di essere diventata madre, un po’ come “non sapevo di essere incinta” ma senza pancia e senza telecamere. 
Credo che Manuela, collega/amica/mamma equilibrista, si sia resa conto ancor prima di me di questa maternità inaspettata e con la schiettezza che la contraddistingue mi ha messo davanti all’evidenza. 
Quando parlavo di Kaltuma a qualcuno che non conosceva tutta la storia, la apostrofavo – con quel fastidio tipico di quando non trovi la parola giusta- come “la ragazza che vive con me”, “la ragazzetta che ho accolto grazie al progetto sprar”, “beh, diciamo la mia figlioccia”. 
Manuela un giorno mi ha interrotto e detto “Figlioccia? Ma che è figlioccia. E’ tu fija, basta”.
Kaltuma da “Marsia” aveva iniziato a chiamarmi mamma, è stato tutto molto naturale. Eppure mi sentivo in difficoltà, non perché mi vergognassi, anzi. Mi sentivo estremamente stupida e illusa perché gli altri mi facevano sentire così. 
A volte bastava un commento o uno sguardo, magari di una persona alla quale vuoi molto bene per sentirti ferita perché il pensiero comune in una società patriarcale è che non si diventa madre così. 
Di una musulmana poi.
E nera.
È quello stesso disagio che sente Kaltuma quando le chiedono dove si trovi la sua famiglia e lei vorrebbe rispondere “cretina/o, ma non lo vedi che sono qui accanto a me!”.
In pochi effettivamente ti riconoscono un ruolo, che sia di madre o figlia o padre, che tu stessa ti stai imbastendo addosso e in alcuni momenti con molte difficoltà. Con la sensazione a volte di passare ago e filo sempre sullo stesso lato, perché puntualmente qualcuno si adopera per scucire quella parte che ti sembrava finalmente terminata.
Soprattutto è stato avvilente e angosciante rendermi conto che il mio stesso riconoscimento passava anche da quello degli altri.
Non abbiamo la presunzione di pensare di poter rimpiazzare affetti o persone, neanche lo vogliamo, ma possibile che sia così difficile da comprendere che si può “coesistere”?
Ecco, fatta eccezione per la mia famiglia, molto ristretta, e per pochissimi amici, non mi sono sentita supportata da quelle stesse persone che avevo coccolato in passato. Da quella pance che avevo sentito calciare. 

C’è stata curiosità, a volte davvero misera. Ci sono stati sguardi di pietismo nei miei e nei suoi confronti.
La cosa più strana è che le stesse persone che si preoccupavano per il mio orologio biologico, improvvisamente erano preoccupate perché Kaltuma era troppo grande, della serie “ti abbiamo detto di fare una figlia ma questa è grande, non ne imbrocchi una, MarziaBià!”.
I bizzarri consigli non richiesti da persone semi-sconosciute che mi invitavano a non legarmi troppo perché una notte mi sarei svegliata sentendo la porta sbattere e Kaltuma si sarebbe volatilizzata per andare a sposarsi in Germania magari, con uno trovato dalla cugina della zia su internet.
Il cliché, questo era Kaltuma. 
E io invece ero una povera scema, con segreti problemi riproduttivi che voleva a tutti i costi una figlia e quindi era andata a pescare un’adolescente a caso allo sprar.
L’affidamento di un’adolescente è ben lontano dall’adozione di una bambina di pochi mesi o anni che nel giro di poco dimentica la lingua madre e il suo vero nome.
Poi ovviamente non tutte le adozioni sono uguali, molto però è legato all’età e ai ricordi.
Kaltuma venuta dal mare, porta con sé un enorme bagaglio pieno di cose e di persone. Zii, zie e sorelle sparsi per il mondo, compagni di scuola arruolati dal terrorismo, compagne di viaggio torturate, maestri col bastone, l’albero di mango in giardino, aquile che rubano la carne, missili sulla scuola, e dulcis in fundo: una mamma.
Più di qualcuno mi ha chiesto se fossi gelosa della mamma di Kaltuma. Forse è davvero difficile da comprendere, ma no, non si prova gelosia. 
Certo che egoisticamente parlando, sarebbe tutto molto più facile (più per Kaltuma che per me), se la sua “nuova” vita non fosse “contaminata” dal passato inclusi gli affetti -tenendo conto che Kaltuma chiama zia e zio ogni persona che abbia più di 30 anni-. 
Non c’è gelosia, piuttosto la difficoltà nel comprendere alcune scelte o la rabbia per alcune situazioni. Ma la rabbia è di chi ha il culo al fresco in Occidente quindi anche quella è relativa. C’è il senso di gratitudine per aver dato la vita ad un essere umano che amo tantissimo, c’è dolore a volte attraverso i racconti, ma non gelosia. 
Condividiamo un grande amore e forse è stato tutto naturale e senza troppe sovrastrutture perché io stessa faccio parte di una famiglia “allargata”, in cui mio padre non è mai stato in grado di amarmi quanto il padre di mia sorella e mio fratello.
So anche di famiglie affidatarie che impazziscono all’idea che il bambino o la bambina possa tornare un giorno dai genitori biologici, ma ogni storia è differente.
Kaltuma inventa tante storie su di noi, quella più ricorrente è che un paio di mesi dopo averla partorita, ero in giro per il mercato di Mogadiscio quando l’ho persa tra la folla, perché a due mesi già correva essendo un fenomeno come la madre!
E’ così che ha trovato l’altra mamma che si è presa cura di lei fino a quando non ha sentito quel richiamo forte che le diceva “Vieni da me! Ti aspetto” e seguendo la puzza, mi ha trovato.
Si può essere mamma in tanti modi diversi e il senso di inadeguatezza di alcune donne nasce dal giudizio poco oculato degli altri, che hanno delle radici così salde nel patriarcato da non rendersene conto, troppo occupati a giudicare l’esistenza degli altri per fare un minimo di analisi delle proprie vite.

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